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MEGLIO RIBELLI, RESISTENTI O RESILIENTI? O ALTRO ANCORA?

Le cronache di questo periodo ci riportano ogni giorni episodi di ribellione (USA, Hong Kong..) di resistenza (come gli indios dell’Amazzonia contro le multinazionali della deforestazione), di resilienza (società, sistemi e comunità che rialzano la testa dopo l’ondata epidemica).

Da sempre l’umanità e gli individui hanno dovuto misurarsi con eventi naturali o sociali che ne hanno messo in pericolo la sopravvivenza o quantomeno la tenuta: ma come si è visto le strategie di fronteggiamento sono diverse, e così pure gli esiti che ne derivano.

Parlare di etimologia non è un puro esercizio di erudizione: come è stato più volte sostenuto, in particolare dal linguista americano George Lakoff(1980) , le parole che scegliamo sono metafore che ci orientano e predispongono ad agire.

Ribellione

Per cui, se dobbiamo “misurarci contro un evento negativo” entriamo immediatamente in una metafora di combattimento, anche se l’evento non è necessariamente una persona: “misurarci “(metafora: in realtà mica usiamo il metro), “contro” (altra metafora: l’evento non è di fronte a noi guardandoci in cagnesco) un evento “negativo” (gli eventi non danno assensi né negazioni, sono semplicemente quello che sono).

L’etimologia in particolare è istruttiva in quanto rivela le metafore già nascoste nelle singole parole.

Iniziamo dunque con il concetto di ribellione: il termine deriva dal latino rebellionem, composto dal suffisso “re-” e da “bellum”, guerra. In sostanza, rilanciare una guerra contro un’entità (umana, di solito) che si classifica come un nemico minaccioso e/o opprimente.

Ma ribellarsi è giusto, come diceva Mao Zedong (non a lui, ovviamente)?

Visto che la ribellione configura un clima psicologico di guerra, è forse bene pensarci due volte. Perché ogni guerra innesca fatalmente un’escalation di aggressività e violenza, dove alla fine c’è chi vince e chi viene schiacciato.

La storia dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi il perdente è proprio chi si ribella.

E non è un caso: ribellarsi è in sé una strategia “via da”, senza un’idea chiara sugli obiettivi a medio e lungo termine, innescata da emozioni come la rabbia e la disperazione, che non aiutano a pensare con lucidità. A volte tuttavia la ribellione è vista come mezzo e non come fine a sé stessa.

“La guerra è uno strumento della politica”

Von Clausewitz

Il generale prussiano, però specificava che chi fa la guerra e chi fa la politica non sono le stesse persone, per cui non di rado capita che qualcuno sia indotto a ribellarsi per i calcoli politici di qualcun altro.

Sorella minore della ribellione è la renitenza, dal verbo latino “niti”, puntarsi, sforzarsi: l’atteggiamento individuale di chi, impossibilitato a modificare una situazione indesiderata, vinto ma non domo, scalcia e cerca vie di fuga personali.

Infatti il contesto classico in cui si parla di renitenza è quello del reato, oggi peraltro inattivo, di “renitenza alla leva”.

E’ curioso osservare come molti atteggiamenti giovanili, classificati come ribelli, andrebbero in realtà inquadrati come renitenti.

Resistenza

Un termine che in Italia ha una connotazione storica precisa, ma che viene comunque usato per indicare episodi in cui una minoranza -vista eticamente come dalla parte del giusto- si oppone a un avversario, non necessariamente militare, con eroismo e saldezza di principi.

Infatti la parola “resistenza” ci arriva direttamente dalla radice sanscrita “stha- rendere fermo, saldo – preceduta dal prefisso “re”- indietro .

Dunque una salda opposizione contro qualcuno, portata avanti mantenendo risolutamente la propria posizione:

“La resistenza delle piccole imprese contro la crisi”,

“La resistenza del quartiere contro gli sfratti dalle abitazioni”,

e così via.

Anche qui però il punto debole sta nel fatto che spesso è più facile coalizzarsi per resistere che per realizzare qualcosa nel caso in cui la resistenza abbia successo.

La storia dell’Italia del dopoguerra ne è un chiaro esempio, ma potremmo citarne a decine.

Naturalmente, come per la ribellione, anche la resistenza si presta ottimamente a essere uno strumento della politica.

Resilienza

Se invece c’è un termine sulla cresta dell’onda, è questo.

Entrato nell’uso comune solo a inizio secolo in ambito psicologico, viene già citato in realtà da Cartesio nel 1670, parlando delle proprietà elastiche di certi materiali.

Parola di origine sempre latina, composta dal prefisso “Re-” e “salire-” cioè fare salti, rimbalzare, era già in uso nella lingua italiana nel XVIII secolo, ma sempre applicato alla fisica di certi materiali in grado di assorbire urti, deformarsi e ritornare poi alle condizioni iniziali.

Un materasso a molle è una metafora di resilienza.

Nel giro di pochi anni invece questa proprietà è passata in senso metaforico a contrassegnare, in ambito umano, un certo “spirito di resilienza”, connotato dalla capacità di sopravvivere a traumi, crisi e rovesci senza soccombere e anzi reagendo con spirito di adattamento riprendendo il cammino interrotto (Trabucchi,2007).

Rispetto ad uno scenario socioeconomico caratterizzato da crisi e instabilità, la capacità di resilienza sembra essere il rimedio -o la prevenzione – per molti guai: ma è davvero così?

Ex-Aptation

Per il pensiero sistemico, ciò che consente ai sistemi complessi -specie viventi, organizzazioni, sistemi sociali- di avere successo in un contesto che cambia non sono tanto l’adattamento o la resistenza, quanto un’altra proprietà che ci arriva dalla biologia (Gould, Vrba, 1982) : in inglese viene detta ex-aptation (gioco di parole su ad-aptation).

Nella lingua italiana è tradotto come pre-adattamento, ma non rende pienamente l’idea, sarebbe più esatto dire pre-attamento.

Mentre l’ad-attamento (dal latino ad-aptare, cioè agire per ottenere una conformità) è una strategia reattiva, volta a recuperare o cancellare un gap rispetto alle mutate condizioni contestuali, il pre-attamento è la straordinaria capacità dei sistemi complessi di giocare in anticipo, combinando in modo innovativo risorse o caratteristiche già presenti per assicurarsi vantaggi competitivi.

Il fatto di usare le penne per volare anziché solo per regolare la temperatura ha assicurato agli uccelli il dominio di un intero ecosistema; l’idea di usare una rete, nata per scambiare dati in condizioni di emergenza, come un moltiplicatore di flussi informativi condivisi ha creato il WEB che tutti usiamo.

Exaptation vuol dire usare in modo nuovo ed evolutivo risorse concepite originariamente per tutt’altri scopi.

Se paragoniamo la resilienza all’exaptation, vediamo una certa differenza: la prima significa semplicemente un ripristino omeostatico dell’equilibrio di un sistema, la seconda porta invece un vantaggio che prima non c’era grazie alla riconfigurazione generale del sistema.

Tutta la storia dell’evoluzione sul nostro pianeta nasce proprio dall’attitudine di certi sistemi -gli altri si sono estinti- di utilizzare le crisi e le difficoltà per divenire più capaci di utilizzare i cambiamenti a proprio favore anziché limitarsi a ricominciare da capo (Holland, 2006).

Antifragilità

E’ lo stesso concetto che Nassim Taleb, filosofo e matematico libanese naturalizzato americano, definisce come “antifragilità” (2012): mentre una struttura fragile si disgrega, e una robusta impegna tempo e risorse per restare com’è, la struttura antifragile può utilizzare le perturbazioni per crescere e prosperare.

In sintesi si può dire che la resilienza altro non è che una robustezza basata sull’elasticità invece che sulla rigidezza.

E’ già qualcosa, ma resta comunque una strategia orientata a superare crisi e traumi per poter tornare a dove si era rimasti.

Disruption

Prendiamo un altro anglicismo caro al pensiero organizzativo: disrupting.

Era in voga prima del Covid 19, poi la disruption è arrivata e ancora ci siamo in mezzo.

Comunque sia, resiliente e disrupting stanno su fronti opposti e delineano due strategie competitive rispettivamente basate la prima sull’aumento dell’efficienza e della flessibilità (resilienza), la seconda sull’innovazione e sul cambiamento organizzativo (exaptation).

Certo va detto che la parola resilienza suona molto meglio di antifragilità o exaptation, e forse anche a questo deve il successo di cui gode in questo momento.

Inoltre, c’è da aggiungere che è anche più rassicurante: promette di restare fondamentalmente ciò che si è, skillati e irrobustiti dalle prove superate.

Come molti concetti del pensiero complesso, antifragilità ed exaptation non sono facili da capire e nemmeno da praticare.

Eppure le scienze della vita ci insegnano che la strada del vero cambiamento -e del successo evolutivo -non può che passare da qui.

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IL PILASTRO MANCANTE

Il neuroscienziato Richard Davidson ha elaborato un interessante modello per costruirsi un benessere “da dentro”, al riparo da imprevisti e turbolenze della vita. Ma al momento c’è ancora qualcosa che manca: il Purpose.

In un nuovo articolo, David Goleman parte da una considerazione interessante.

Ogni gennaio, circa un americano su tre prende una risoluzione per migliorare se stesso in qualche modo.

La ricerca suggerisce che a sei mesi dall’inizio del nuovo anno, ovvero in pochi mesi, meno della metà di queste persone è ancora in linea con l’obiettivo di raggiungere il proprio obiettivo.

Un’ampia percentuale di questi obiettivi, ben oltre la metà, è correlata al benessere o alla forma fisica. Cose come “corri di più” o “prenditi una pausa” o “dormi meglio”. E via dicendo.

Risultati simili li abbiamo ottenuti anche noi durante un recente seminario del LISA -Laboratorio di Intelligenza Sistemica Applicata.

Goleman si chiede -e noi con lui- se questi sono gli unici posti in cui dovremmo mettere la nostra energia, o se invece c’è qualcos’altro su cui potremmo investire per un benessere più costante e profondo.

Lo scorso luglio, il sondaggio di monitoraggio della Kaiser Family Foundation ha riferito che più della metà degli adulti statunitensi ha segnalato un calo della propria salute mentale a causa della preoccupazione e dello stress per la pandemia, rispetto al 32% segnalato nel marzo del 2020.

Abbiamo buoni motivi per ritenere che in Italia le cose non vadano meglio.

Considerato quanto è stato stressante l’ultimo anno, ci domandiamo se sia possibile trovare fonti di felicità meno dipendenti dalle incertezze e dalle turbolenze che la vita può offrirci.

Pensando a qualcosa di concreto da considerare quando cerchiamo un antidoto al nostro malessere, il dato forse più importante, benché in genere non il più evidente, è la differenza tra il tipo di felicità che dipende da ciò che ci accade giorno dopo giorno e un senso di benessere che viene da dentro.

Richard Davidson è un neuroscienziato e fondatore del Center for Healthy Minds presso l’Università del Wisconsin, amico e collega di Goleman.

Sulla base di anni di ricerca scientifica, lui e i suoi colleghi hanno introdotto un quadro per il benessere che trascende ciò che tradizionalmente abbiamo considerato “buono per noi”.

I quattro pilastri

Nel suo modello il benessere ha quattro pilastri:

  • Awareness (Consapevolezza nel senso di Presenza): la nostra attenzione al nostro ambiente, alle sensazioni corporee, ai pensieri e ai sentimenti, il grado in cui notiamo (o meno) i dettagli della nostra esperienza.
  • Connessione: quanto siamo legati agli altri e al mondo che ci circonda, il grado in cui pratichiamo apprezzamento, gentilezza e compassione.
  • Insight: quanto e quanto spesso coltiviamo la curiosità e la conoscenza di noi stessi.
  • Scopo (Purpose): il grado in cui comprendiamo i nostri valori e le nostre motivazioni, utilizzandoli come una stella polare in base alla quale guidiamo le nostre decisioni.

Ciascuno di questi pilastri si focalizza su competenze specifiche che possono essere apprese e rafforzate nel tempo, come dimostrano anche diversi studi di laboratorio.

Davidson sostiene che se vogliamo trovare un senso di felicità e benessere nelle nostre vite, dobbiamo coltivarli in egual misura.

Non sono separati: sono per così dire quattro facce di un’unica medaglia.

Il tipo di felicità “da fuori” può facilmente subire un picco negativo ogni volta che si verificano delle avversità, come in questo periodo di blocco e recessione in cui continuano ad accadere cose brutte.

Ma il secondo – il tipo “da dentro” su cui sta lavorando Davidson – offre una sorta di vaccinazione contro questi alti e bassi.

Tornando all’inizio, è chiaro che obiettivi come quelli dichiarati più sopra -tempo per sé, forma fisica, relazioni affettive ecc – sono ottimi per i pilastri che Davidson chiama awareness e connessione.

Ma è sugli altri due pilastri che invece c’è in genere scarsa attenzione. Qualcosa forse sull’insight, ma zero sullo scopo: il quarto pilastro.

Che è quello della trasformazione evolutiva, del salto di livello, della coscienza di sistema.

Anche Goleman infatti si chiede: che tipo di riflessioni stiamo facendo riguardo al purpose? Possiamo trovare un senso di significato più ampio del nostro interesse personale?

Interrogativi che anche noi non solo condividiamo, ma sui quali già ci stiamo impegnando per far crescere la “consapevolezza sistemica” delle persone, sviluppando un mindset che connette invece di separare, che interagisce invece di controllare, che rilancia invece di arroccarsi.

Per uscire da quell’egoriferimento esteso che fa da tappo alla nostra evoluzione personale e sociale.

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BUFALE E DISSONANZA COGNITIVA

La dura battaglia contro il dilagare di false credenze, nuove superstizioni e vecchi pregiudizi: il nemico è nel nostro cervello.

Perché fake news, teorie complottiste e credenze manifestamente illogiche continuano a diffondersi e sono così difficili da estirpare?

Almeno sul piano psicologico, una spiegazione c’è. E’ la teoria della dissonanza cognitiva, elaborata già negli anni ’50 dallo psicologo sociale Leon Festinger. Di che si tratta? Quando un individuo attiva due idee o comportamenti che sono tra loro coerenti, si trova in una situazione emotiva soddisfacente (consonanza cognitiva); al contrario, se le due rappresentazioni sono tra loro contrapposte o incompatibili si troverà a vivere una difficoltà nel decidere e giudicare. Questa incoerenza produce appunto una dissonanza cognitiva, che l’individuo cerca automaticamente di eliminare o ridurre a causa del marcato disagio psicologico (ad esempio riduzione dell’autostima) che comporta; questo porta all’attivazione di vari processi elaborativi, che permettono di compensare la dissonanza (e ripristinare l’autostima). E tutto questo, senza alcun nesso con l’appropriatezza o la bontà del risultato finale: ciò che conta è semplicemente ritrovare un senso di coerenza interna.


Un esempio si può avere quando un soggetto disprezza esplicitamente i ladri, ma compra un oggetto a un prezzo troppo basso per non intuire che sia di provenienza illecita. Secondo Festinger, per ridurre questa contraddizione lo stesso individuo potrà smettere di disprezzare i ladri (modificando quindi l’atteggiamento), o non acquistare l’oggetto proposto (modificando quindi il comportamento). O addirittura indignarsi perché si autoconvince che qualcuno –specificato oppure no- deve averlo ingannato al proposito (modificando quindi le sue opinioni sul contesto).
Generalizzando, la dissonanza cognitiva può essere ridotta in tre modi:
producendo un cambiamento nell’ambiente;
modificando il proprio comportamento;
modificando il proprio mondo cognitivo (ovvero il sistema delle proprie rappresentazioni cognitive e delle loro relazioni funzionali interne)
Se ne avete voglia, potete applicare questo schema a tanti fenomeni, dalla percezione della crisi all’atteggiamento verso l’immigrazione clandestina.

In un famoso studio, Festinger e i suoi colleghi si infiltrarono in una setta guidata da tale Dorothy Martin –una casalinga di periferia- che profetizzava una imminente, apocalittica inondazione in cui lei e i suoi seguaci sarebbero stati salvati su dischi volanti da uomini dallo spazio chiamati i Guardiani. Inutile dire che nessun uomo dello spazio (e nessuna alluvione) si manifestarono al momento indicato dalla profetessa, che però continuò a rivedere le sue previsioni. Certo, gli spaziali non si erano presentati nel giorno previsto, ma senza dubbio sarebbero arrivati domani, e così via. I ricercatori guardavano affascinati mentre i credenti continuavano a credere -nonostante tutte le prove a sfavore – e anzi raddoppiavano il loro zelo nel fare proseliti. Festinger, anche in seguito, descrisse l’aumento della convinzione e del proselitismo dei membri del culto pur dopo la disconferma come esempio specifico di dissonanza cognitiva (l’aumento del proselitismo contribuiva a ridurre la dissonanza con la consapevolezza che altri accettano le loro convinzioni). Un meccanismo “diabolico” che può essere applicato per comprendere certi fenomeni di massa.

“Un uomo con una convinzione è un uomo difficile da cambiare”, scrissero Festinger, Henry Riecken e Stanley Schacter in Prophecy Fails, il loro libro del 1957 su questo studio. “Digli che non sei d’accordo e lui si allontana. Mostrargli fatti o figure e egli mette in discussione le tue fonti. Appellati alla logica e lui non riuscirà a vedere il punto … Supponiamo di esserci presentati con prove, prove inequivocabili e innegabili, che la sua credenza è sbagliata: cosa accadrà? L’individuo emergerà frequentemente, non solo inscalfitto, ma ancor più convinto della verità delle sue convinzioni “.

Questo rafforzamento di fronte a prove conflittuali è un modo per ridurre il disagio della dissonanza e fa parte di un insieme di comportamenti noti nella letteratura psicologica come” ragionamento motivato “. Il ragionamento motivato è il modo in cui le persone si convincono o restano convinte di quello a cui vogliono credere : cercano informazioni gradevoli che imparano più facilmente; evitano, ignorano, svalutano, dimenticano o contestano informazioni che contraddicono le loro convinzioni. In uno studio del 1967, i ricercatori avevano messo alcuni soggetti sperimentali ad ascoltare discorsi radio pre-registrati, dopo averli avvertiti che i discorsi sarebbero stati piuttosto lenti e mal sintonizzati, ma che avrebbero potuto premere un pulsante che migliorava la sintonia per alcuni secondi quando avessero voluto ottenere un ascolto più chiaro. Talvolta i discorsi erano relativi al fumo – dove si facevano collegamenti al cancro o viceversa si smentivano – o a volte erano argomenti che attaccavano il cristianesimo. Cosa accadeva? I soggetti che fumavano erano molto pronti ad azionare il bottone per sintonizzarsi con il discorso che suggeriva che le sigarette non potevano causare il cancro, mentre i non fumatori erano più propensi a premere il bottone per il discorso antifumo. Allo stesso modo, i frequentatori di chiese più assidui erano felici di lasciare che il discorso anticristiano si sciogliesse nei disturbi di fondo, mentre i meno religiosi si davano da fare col bottone.

Al di fuori di un laboratorio, questo tipo di esposizione selettiva è ancora più facile. È possibile disattivare la radio, cambiare canali, gestire le pagine di Facebook che danno il tipo di notizie che si preferiscono. È possibile costruire un comodo ammortizzatore delle informazioni che non piacciono. La maggior parte delle persone tuttavia non è totalmente accovacciata in una caverna ammortizzata. Costruisce finestre nel muro, sbircia di volta in volta, va a fare lunghe passeggiate nel mondo. E così, incontra occasionalmente informazioni che suggeriscono qualcosa che smentisce le sue supposizioni. Molti di questi casi non sono impegnativi e le persone cambiano idea, se l’evidenza dimostra che dovrebbero – pensavi fosse bello oggi, esci dalla porta e piove, prendi un ombrello. Semplice. Ma se la cosa che dicono essere sbagliata è una credenza che è strettamente legata all’identità o alla visione del mondo – il guru a cui hai dedicato la tua vita è accusato di alcune cose terribili, le sigarette da cui sei dipendente possono ucciderti – beh, allora si diventa contorsionisti della logica, facendo tutta la ginnastica mentale che serve per rimanere convinti di aver ragione. Secondo lo psicologo Tom Gilovich, la gente giudica più deboli le prove che non sono d’accordo con loro, perché in definitiva si fanno domande fondamentalmente diverse per valutare quelle prove, a seconda che vogliano credere o no a ciò che viene suggerito. “Per le conclusioni desiderate,” scrive, “è come se ci chiedessimo ” Posso credere a questo? “, Ma per le conclusioni spiacevoli chiediamo:” Devo credere a questo? ” La gente si accosta a certe informazioni in cerca di un appiglio per credere, e a certe altre cercando vie di fuga.

Nel 1877, il filosofo e matematico William Kingdon Clifford scrisse un saggio intitolato “L’etica della credenza”, in cui sostenne: “È sempre sbagliato, ovunque e per chiunque credere a qualcosa su prove insufficienti”. Lee McIntyre, ricercatore presso il Centro per la Filosofia e la Storia della scienza presso l’Università di Boston, assume un tono simile a livello morale nel suo libro “Rispettare la verità: volontà e ignoranza nell’era di Internet”: “Il vero nemico della verità non è ignoranza, dubbio o addirittura incredulità”, scrive. “È falsa conoscenza”. Il fatto che si tratti di mancanza di etica o meno non coglie però il punto, perché di fatto le persone sbaglieranno e crederanno le cose su prove insufficienti. E inoltre le loro comprensioni delle cose che credono spesso sono incomplete, anche se sono corrette. Quante persone che (giustamente) credono che il cambiamento climatico sia reale possono in realtà spiegare come funziona? E come osservava il filosofo e psicologo William James in un discorso che commentava il saggio di Clifford, la fede religiosa è un dominio che, per definizione, richiede che una persona creda senza prove. In sintesi tutte le menzogne, le teorie della cospirazione, le propagande, i classici errori di vecchia natura, costituiscono una minaccia alla verità quando si diffondono come funghi attraverso le comunità e si radicano nelle menti della gente. Ma la contraddizione intrinseca della falsa conoscenza è che solo chi non ne è coinvolto riesce a dire che è falso. E come si è visto è difficile controbattere coi fatti ciò che a una persona sembra la verità. A prima vista, è difficile capire perché l’evoluzione abbia permesso agli esseri umani di rimanere resistenti ai fatti. “Non ti conviene essere un negazionista e dire:” Oh, questa non è una tigre, perché dovrei credere che sia una tigre? “Perché ti potrebbe mangiare”, dice McIntyre. Ma da una prospettiva evolutiva, ci sono cose più importanti della verità. Prendiamo lo stesso scenario che McIntyre ha citato e rivediamolo dall’inizio – si sente un ringhio nei cespugli che suona proprio come una tigre. La cosa più sicura da fare –e premiante sul piano della selezione naturale- è probabilmente andarsene a gambe levate, anche se poi si scopre che era solo il nostro compagno di giochi. La sopravvivenza è più importante della verità. Il problema nella rete di informazioni del mondo odierno è che ci sono troppi furbi che sapendo come siamo fatti trovano la loro convenienza a farci scappare a gambe levate da una tigre immaginaria in direzione della loro pentola reale.